Saverio Morabito, il super pentito testimone sul sequestro Mazzotti

L’ industria dei sequestri di persona, ebbe alle spalle, per circa un quarto di secolo – dai primi anni ’70 alla seconda metà degli anni ’90 – organizzati e ben ramificati da un capo all’altro dell’Italia, i clan della ‘ndrangheta della Locride. Clan radicati, in particolare, nell’area aspromontana della provincia di Reggio Calabria, tra Platì, San Luca, Natile di Careri e Ciminà, un “regno” criminale da cui presero le mosse per diffondersi in varie regioni del Nord Italia. Uno degli ultimi a raccontare nei dettagli come le “famiglie” del crimine organizzato calabrese si fossero mosse e, soprattutto, come fossero riuscite, sfidando apertamente lo Stato per oltre un ventennio, a fare soldi a palate con i sequestri di persona a scopo estorsivo – soldi da reinvestire poi in narcotraffico o da riciclare in attività commerciali – è stato uno dei primi e più autorevoli collaboratori di giustizia, Saverio Morabito, di Platì, classe 1952, una “gola profonda” che ha consentito spesso ai magistrati antimafia e alle forze dell’ordine di mezza Italia di costruire le basi di numerose grosse operazioni anticrimine. Morabito è tornato a vuotare il sacco nel corso di una delle ultime udienze davanti alla Corte d’assise di Como, del processo istruito, a distanza di ben 49 anni dalla vicenda che scosse l’Italia, contro i tre presunti ideatori e organizzatori del drammatico rapimento della giovane studentessa lombarda Cristina Mazzotti.