La trappola tesa al “brasiliano” fatto sparire per lupara bianca

Il “brasiliano”. Massimo Speranza, 21 anni, cosentino, veniva chiamato così per l’abilità mostrata nel calciare il pallone e per il colore scuro della pelle. Il ragazzo, però, non sognava di fare il calciatore e s’era impelagato negli ambienti della criminalità organizzata. Ambienti che, all’inizio del terzo millennio, vivevano una fase di fibrillazione. La criminalità nomade era entrata in contrasto con gli “italiani” e il futuro appariva gonfio di nubi plumbee. Il capo degli “zingari” di Cosenza, Franco Bevilacqua, aveva deciso di collaborare con la giustizia e la situazione sul campo si stava irrimediabilmente complicando. I rapporti tra le consorterie erano molto tesi e gli amici più stretti in grado di riscontrare le dichiarazioni del padrino pentito andavano eliminati. Speranza aveva amici dall’una e dall’altra parte. E la circostanza l’esponeva a rischia altissimi: il “brasiliano” però sottovalutava il quadro barcamenandosi tra compari e compagni di malavita.