Il 25 agosto di due anni fa, l’avvocato Giuseppe Andò, il figlio del faccendiere massone finito ai domiciliari nell’inchiesta su Mimmo Russo, era entusiasta. Telefonò a un consigliere di amministrazione della nuova società di gestione dell’ippodromo, Tommaso Di Matteo, per annunciargli che al ministero delle Politiche Agricole avevano appena dato il via libera a un finanziamento per la struttura sportiva. Qualche minuto dopo, Giuseppe Andò chiamò Gregorio Marchese, il figlio del superkiller che Mimmo Russo aveva piazzato alla Favorita: anche a lui diede la bella notizia del finanziamento, citando addirittura il nome della funzionaria del ministero che si stava occupando della pratica. « Come l’hai conosciuta?», chiese Marchese. «No, l’ho saputo… amici», fu la risposta dal tono sbrigativo. «Buono, buono, buono», aggiunse Marchese. Piuttosto, l’avvocato Andò era interessato a parlare con Russo: «Ci dobbiamo vedere, io voglio vedere a Mimmo… ma che fa lo posso chiamare? Lo volevo salutare». Marchese faceva da assistente tuttofare dell’esponente politico di Fratelli d’Italia finito in manette per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio: «Lo puoi chiamare è in ferie». Conclusione della telefonata. Andò (che non risulta indagato in questa inchiesta): «Ok, ti voglio bene». Marchese: «Ciao». Ma chi c’era veramente dietro quel finanziamento del ministero delle Politiche Agricole all’ippodromo di Palermo?