«Io mi devo levare qualche scaglia, ma è una cosa mia personale — sbottò il mafioso più giovane della famiglia Badagliacca, Gioacchino, classe 1977 — io gli devo scippare la testa, ma questa è una cosa mia. E sarà l’ultima cosa che faccio». Voleva uccidere un architetto che aveva sbagliato la pratica di sanatoria di un immobile del padre. Un omicidio per punire uno “sgarro”, Come nei ruggenti anni Ottanta della mafia a Palermo, quando si moriva per nulla. Per uno sguardo di troppo, per una precedenza non data, per un confine non rispettato. I giovani terribili di Cosa nostra vogliono il ritorno al passato. «C’è lo statuto scritto che hanno scritto i padri costituenti», sussurrava Gioacchino Badagliacca, arrestato dai carabinieri del nucleo Investigativo assieme ad altre sei persone. È una straordinaria conferma di quanto nel 2003 aveva raccontato Salvatore Facella, piccolo mafioso di provincia che aveva scelto di collaborare con la giustizia: rivelò proprio che Cosa nostra ha un suo statuto scritto, composto poco prima della Seconda guerra mondiale da un tale «avvocato Panzeca di Caccamo», mafioso quando a Caccamo, estrema periferia della provincia, regnava don Peppino Panzeca, il padrino cui si rivolgevano da tutta la Sicilia.
